La reincarnazione nel martinismo

Nel corso di una conversazione fra martinisti mi è capitato, recentemente, che un fratello mi facesse notare come nell’AMORC – ordine d’ispirazione rosacrociana all’interno del quale sopravvive, per ragioni storiche, l’Ordine Martinista Tradizionale che si ricollega a Chaboseau – i membri siano esposti ad alcune contraddizioni dottrinali fra i due tipi di insegnamenti impartiti. Tra queste, quella su cui vorrei soffermarmi nel presente scritto concerne la dottrina della reincarnazione, accettata dalla tradizione Rosacroce e apparentemente ricusata dagli scritti di Saint-Martin. Mi spinge a queste riflessioni una sensibilità personale che accorda a tale tema una particolare importanza, al punto da aver scelto come nome iniziatico “gilgul”, termine ebraico che designa la dottrina cabalistica del ritorno delle anime. Parimenti, mi muove la convinzione che tale argomento abbia un ruolo essenziale nel percorso iniziatico: è proprio su questa “pietra d’inciampo” che si consumò la rottura definitiva fra Papus e Guénon, con il primo che aveva scritto un libro in materia, dal titolo La réincarnation, e il secondo che ne negava la presenza non solo nel corpus dottrinale delle vie occidentali, ma persino dell’induismo e del buddismo, alle quali superficialmente la ascriviamo senza troppi problemi. Già la semplice constatazione per cui il fondatore dell’ordine martinista, Papus, fosse prono ad ammettere l’esistenza della metempsicosi, mentre Saint-Martin la ricusa in più occasioni, ci mostra la natura complessa del rapporto fra martinismo e reincarnazione.

Prima di procedere, vorrei chiarire un punto per non essere tacciato di una semplificazione estrema, per quanto l’estensione del presente scritto imponga necessariamente delle approssimazioni. Affermare che la tradizione Rosacroce ammetta la dottrina della reincarnazione significa alludere implicitamente al fatto che tale tradizione sia unica e univoca, il che è falso, e che essa esprima una docetica chiara e cogente per chi voglia ad essa ricollegarsi, falso anche questo. Non possiamo tuttavia ignorare almeno due esempi storici di figure vicine al movimento Rosacroce, le quali aprono una breccia affinché la dottrina della metempsicosi contamini tale via iniziatica cristiana. La prima è quella di Knorr von Rosenroth (1636-1689), che nella sua Cabala Denudata include alcuni estratti dello Sha’ar ha Gilgulim, testo che restituisce gli insegnamenti del rabbino Isaac Luria sulla metempsicosi. Il secondo è Francis Mercurius van Helmont (1618-1699), di cui McIntosh, nel suo fondamentale saggio sui Rosacroce, ci dice che sia stato processato dall’Inquisizione per aver asserito la sua fede nella dottrina del ritorno delle anime.

Veniamo ora al martinismo. Entrambi coloro che io considero gli interpreti più seri e documentati sull’opera di Saint-Martin, ossia Arthur Edward Waite e Ovidio La Pera, sono categorici nell’esprimere una incompatibilità fra il pensiero del Filosofo Incognito e il reincarnazionismo. Il primo ci dice che in Saint-Martin there is therefore no pre-existence in the sense of Glanvil the Platonist, nor, it may be added, is there any reincarnation. Più categorico Ovidio La Pera, forte di ampi estratti della corrispondenza teosofica tra Saint-Martin e Kirchberger, il quale afferma che Il nostro filosofo, così come il suo primo maestro Martinez de Pasqualis (del quale del resto per convincersene basta leggere il suo “Trattato della reintegrazione degli esseri”), non ha mai sostenuto né tanto meno difeso la dottrina della metempsicosi.

In realtà, leggendo l’opera del Filosofo Incognito, il quadro appare più complesso. In Degli errori e della Verità Saint-Martin rifiuta decisamente l’idea della progressiva ascensione verso stati superiori dell’essere, per cui non si sa più se una pietra può diventare un albero, e a Kirchberger nel gennaio del 1794 scrive a meno che non chiamiate metempsicosi il ritorno possibile e ripetuto dei grandi eletti di Dio, quali Elia, Enoc, Mosè, ecc. Si tratta di un’ipotesi che l’autore non può non ammettere anche alla luce del testo evangelico. Si legga in proposito Marco 8, 27-28: “Poi Gesù se ne andò, con i suoi discepoli, verso i villaggi di Cesarea di Filippo; strada facendo, domandò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?» Essi risposero: «Alcuni, Giovanni il battista; altri, Elia, e altri, uno dei profeti».

In realtà mi sorprende la semplicità con cui La Pera rinvia al Trattato della reintegrazione degli esseri come testo in cui appare in modo semplice e palese un rifiuto della dottrina della reincarnazione. Non possiamo, al contrario, rinvenire una profonda prossimità fra l’idea del tipo e quella ebraica del tiqqun, ossia la rettificazione compiuta anche attraverso il ritorno dell’anima?

L’ansia di rifiutare la reincarnazione accomuna trasversalmente una schiera di pensatori, da Saint-Martin a Guénon, passando per Coomaraswamy, fino a La Pera, soprattutto in un contesto individualista moderno, ed è in tale contesto che io mi sento profondamente in sintonia con le loro obiezioni. In ultima analisi, la questione è quella di capire chi o cosa si reincarni. Di certo, non il nostro io, di natura puramente illusoria, cui basta uno stato di sonno per sparire transitoriamente. Questo io che pare il cuore della profanità occidentale moderna, si riduce a una sorta di fantasmagoria transeunte negli insegnamenti orientali e giudaici. Sorprendente, a tal proposito, l’analogia fra i cinque aggregati del buddhismo e le cinque anime dell’ebraismo, parti diverse che concorrono ad animare transitoriamente un individuo e che, certamente, non seguiranno un destino unico dopo la dissoluzione del veicolo corporeo. Queste cinque porzioni sono frammenti, scintille, del primo Adamo e della prima Eva, e ciascuna segue, secondo Isaac Luria, un percorso di purificazione diverso in seguito alla morte del corpo. In questo senso, l’umanità è un unico grande organismo, l’Adamo-Eva, e persegue un cammino di purificazione sostenuto dall’amore di Dio e reso possibile dal sacrificio del Riparatore. Chi ha orecchie per intendere, intenda. 

Fr. Adam Gilgul II

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