LO SHINTO, ANIMA MILLENARIA DEL GIAPPONE

«[…] Le prime divinità esistenti diedero alla luce due esseri divini: Izanagi e Izanami. A questi due kami venne affidato il compito di creare la terra. Così le due divinità andarono al ponte Amenouhashi e grazie all’alabarda divina Amanuhoko mescolarono il mare, facendo emergere l’isola di Onogoro.

Izanagi e Izanami scesero quindi dal cielo e vennero a dimorare su questa isola ed ebbero due figli: Hiruko e Awashima. Questi ultimi però erano deboli e malformati e perciò non vennero considerati divinità. I figli erano venuti deboli perché durante una cerimonia prima del concepimento le due divinità avrebbero dovuto girare attorno a dei pilastri sacri e poi salutarsi ma fu Izanami a salutare per prima Izanagi e non viceversa come doveva avvenire.

Perciò rifecero nuovamente la cerimonia e dalla loro unione stavolta nacquero le Oyashima, cioè le otto isole del Giappone: Awazi, Iyo, Ogi, Kyushu, Iki, Tsushima, Sado, Honshu […]»

Il mito della Creazione tratto dal Kojiki, VIII secolo d.C.

Il Giappone è una terra misteriosa e affascinante in cui la modernità più frenetica si accosta con perfetta armonia con la conservazione di tradizioni plurisecolari.

Il suo relativo isolamento dovuto all’essere un arcipelago staccato dalla massa continentale asiatica gli ha permesso di prendere e assimilare dalle civiltà vicine (principalmente la Cina) solo quanto gli interessava, inglobandolo senza quei traumi tipici delle nazioni continentali, sempre alla mercé di spostamenti di popolazioni e sommovimenti culturali, sociali o religiosi.

Il Giappone non è mai stato sottomesso da una potenza straniera fino al 1945, quando venne sconfitto e occupato dagli americani. Perfino i mongoli, conquistatori di mezzo mondo, dovettero rinunciare all’impresa quando la loro immensa flotta venne spazzata via da uno tsunami nel XIII secolo.

Per questo motivo anche la sua religione “nazionale”, lo shinto, ha conservato dei suoi tratti peculiari unici, che si sono conservati quasi invariati per millenni. È una religione politeista con tratti sciamanici e animisti che derivano, con buona probabilità, dal periodo in cui gli antenati dei primi colonizzatori delle isole del Sol Levante risiedettero nelle steppe della Mongolia.

Il termine stesso viene alla luce solo nel VI secolo d.C., composto da due kanji: 神 shin e 道  (il Tao cinese). Uniti assieme si potrebbero tradurre come “Via del Divino”. La necessità di dare una chiara definizione a questo complesso religioso fu resa necessaria dal confronto con il buddismo cinese, introdotto nell’arcipelago proprio in quegli anni. Ad ogni modo per quasi tutta la storia del Giappone le due fedi vissero in totale armonia, spesso influenzandosi a vicenda. Il Buddha stesso venne integrato e digerito nel sistema shinto, diventando un grande kami a se stante oppure considerando i vecchi kami come sue incarnazioni speciali (perfino Gesù Cristo, quando venne introdotto in Giappone dai missionari portoghesi nel tardo XVI secolo, venne qualificato in un primo tempo come un kami).

Con le dovute differenze, quindi, lo shinto richiama i modelli religiosi dei popoli Indoeuropei, incentrati su pantheon di alcuni numi superiori e una quantità virtualmente infinita di divinità minori, creature ed entità che abitano sia nel mondo umano che in quello sovrannaturale.

Gli dèi in Giappone sono chiamati kami, entità spiritiche che popolano tutto l’universo. Per il fedele shintoista un fiume, un monte (ad esempio il Monte Fuji, con il suo vulcano, è tradizionalmente considerato un potente dio) o semplicemente una pianta, possono essere considerati come espressione dei kami o di elementi mistici in grado di porre in contatto con la sfera divina. Persino grandi personaggi storici sono stati elevati, come avveniva con la divinizzazione degli imperatori romani, a questo alto ruolo di spiriti guida sacri. Tra questi, perfino molti dei comandanti giapponesi dell’era moderna beneficiarono di questa apoteosi divina, tra cui Tōgō Heihachirō (ammiraglio che vinse la battaglia di Tsushima del 1905 contro i russi) e Yamamoto Isoroku (ammiraglio che pianificò l’attacco a Pearl Harbour nel 1941), giusto per citarne alcuni.

I kami sono collettivamente definiti 八百万の神 o Yaoyorozu-no-kami, che letteralmente significa otto milioni di kami. Il numero arcano di otto milioni non è il numero esatto, ma piuttosto un espediente simbolico atto ad indicare l’infinito in un’epoca in cui questo concetto non esisteva.

Lo 神 界 Shinkai, o mondo dei kami, era parecchio affollato, con entità spirituali positive o negative: gli ujigami, ad esempio, proteggono ancora ora specifici luoghi, località o paesi. I dosojin e i dorokujin sorvegliano i viandanti. Anche gli antenati, se morti senza problemi, in felicità o meglio ancora dopo aver compiuto grandi imprese, diventano spiriti protettori o tenjin. Il culto domestico, che funziona in maniera non dissimile rispetto a quello dei Lares e Penates della tradizione romana, permette di trovare nelle case giapponesi alcuni altarini chiamati 神棚 Kamidana – mensola dei kami – in cui si trovano riposti specchi che indicano la presenza di un nume tutelare, amuleti, porta incensi e piccole offerte votive come sale, acqua o riso.

Vi sono poi creature fatate zoomorfe come i komainu, cani-leoni importati dalla tradizione cinese e posti a difesa dell’entrata dei templi per allontanare gli spiriti maligni, oppure i tanuki simili a procioni, in genere portatori di fortuna, o i tengu, uccelli con fattezze umane. Queste creature sono spesso muta-forma, perciò possono interagire con gli umani, aiutandoli oppure giocando loro scherzi per noia o per capriccio.

Vi sono infine anche spiriti pericolosi come le yurei, sorta di fantasmi di chi è morto in maniera violenta o comunque infelice. Il termine significa “anime tormentate” e perciò, se non calmate con preghiere e offerte, potrebbero creare problemi e gettare sortilegi o maledizioni. Allo stesso modo esistono i mizuko, spiriti di bambini morti in tenera età che, se non placati, scatenano pestilenze o altri danni.

Vi sono infine gli yokai, tradotto spesso con il termine demoni, per quanto non siano necessariamente malvagi. La loro è una categoria ampia e dai contorni non ben definiti, che vive in un mondo a metà tra il nostro e quello spirituale, perciò hanno contatti sporadici con gli umani.

In quanto all’aldilà, nello shintoismo non esiste un concetto simile alla punizione o ad un giudizio dopo il trapasso, perciò non vi è una particolare preoccupazione rispetto alla vita dopo la morte. Influenzato dalla sua matrice animista e dalle influenze buddhiste, questa religione si focalizza nel trovare l’armonia, la pace e la virtù in questo mondo. Per un fedele shinto lo spirito umano è eterno, proprio come i kami. L’aldilà è perciò concepito come una sorta di livello esistenziale superiore. Quando si muore, dunque, si cambia semplicemente forma di esistenza, passando da quella terrena ad un’altra spirituale. Forse è anche per questo motivo che il suicidio, in Giappone, è più diffuso rispetto che da noi, visto che lo spartiacque tra le due esistenze non comprende il rischio di punizioni o rischi eterni.

Un aspetto interessante legato a questo sistema di credenze è la componente superstiziosa, tipica dello sciamanesimo, con una sterminata collezione di rituali e metodi intesi a mediare le relazioni tra gli esseri umani e i kami. La purificazione prima di entrare in un tempio mediante lo sciacquo di mani e bocca presso delle apposite fontane, l’utilizzo di frasi di ringraziamento prima di mangiare e i gesti devozionali quasi meccanici, sono tutti modi per tener buoni i kami, rispettando l’equilibrio e l’armonia del cosmo. In questo sono identici al mondo romano, attento in maniera ossessiva nel rispettare la pax deorum mediante rituali da compiere con scrupolosa perfezione in ogni dettaglio, per evitare la disapprovazione degli dèi. In Giappone, iò termine per definire questa armonia che non va spezzata è kannagara no michi.

Tornando all’evoluzione storico religiosa del paese del Sol Levante, la coesistenza e amalgama di buddismo e shintoismo ebbe larga diffusione fino alla fine del Periodo Edo, nel XIX secolo. In seguito alla Restaurazione Meiji lo shintoismo venne proclamato religione ufficiale e la sua combinazione con il buddismo venne resa illegale. In questo periodo molti studiosi e politici iniziarono a vedere lo shinto come mezzo attraverso cui unificare il Paese mediante la devozione alla figura sacra dell’imperatore, unico modo per bilanciare l’influsso europeo e occidentale correlato a doppio filo al necessario processo di modernizzazione.

Nel 1871 venne istituito un Ministero delle Divinità e i templi shintoisti vennero divisi in dodici livelli con sede centrale al tempio di Ise, dedicato ad Amaterasu e perciò legato al culto della famiglia imperiale. Negli anni seguenti il Ministero delle Divinità venne rimpiazzato da una nuova istituzione, il Ministero della Religione, incaricato di guidare l’istruzione allo shushin o sentiero morale.

Questa evoluzione prese il nome di Kokka Shinto, traducibile in Shinto di Stato, che perdurò dal 1867 al 1946, venendo imposto all’esterno nei territori da “nipponizzare” come Hokkaido, la Corea e Taiwan. La sua fine fu decretata dal disastro della Seconda Guerra Mondiale, in seguito al quale gli americani imposero una democratizzazione del paese e tentarono di annichilire – trasformandola in una semplice figura di capo di Stato – il retaggio divino del 天皇 Tennō o Sovrano Celeste: l’imperatore.

Secondo la tradizione, infatti, la linea dinastica di sovrani giunta fino ad oggi prosegue ininterrotta lunga venticinque secoli fin dal lontano 660 a.C. con il primo imperatore Jinmu, pronipote della stessa dea del Sole Amaterasu.

Il generale Douglas MacArthur, capo delle forze d’occupazione, impose una nuova Costituzione al paese, obbligando l’imperatore Hirohito a rilasciare la Ningen-sengen, traducibile come la “Dichiarazione della natura umana”, un controverso scritto in giapponese arcaico che potè essere letto in tanti modi, tanto da soddisfare gli americani – che lo interpretarono come l’abbandono totale della pretesa discendenza divina di Hirohito e della sua stirpe – e i giapponesi più acculturati, che invece dichiararono che il tema della dichiarazione vertesse sulla democratizzazione del paese, ma non sulla figura imperiale, che rimase un arahitogami, ovvero un dio-vivente.

A seconda dei vari commentatori il termine usato nel testo – akitsumikami, ovvero kami manifesto o incarnazione di un kami/dio – non equivale al titolo di arahitogami, che significa dio vivente. Giocando su termini che gli americani non potevano comprendere Hirohito e i suoi studiosi trovarono un cavillo per accontentare i vincitori senza venire meno alla millenaria tradizione giapponese. Difatti per i nipponici la figura dell’imperatore continua ad essere la continua e ininterrotta discendenza nel tempo della dea Amaterasu, rappresentando un naka ima o Eterno Presente. Di conseguenza rimane inammissibile negarne l’origine divina.

L’attuale imperatore, Naruhito, per la tradizione risulta quindi essere il 126° discendente diretto di Jinmu.

Ultime due note relative a questo punto. In quanto rappresentanti dell’eterno presente, sangue del sangue della dea Amaterasu, al momento della loro elevazione gli imperatori perdono il proprio nome individuale, diventando solo 天皇陛下 Tennō Heika, ovvero “Sua Maestà l’Imperatore”. Per non confonderli negli annali, la loro elevazione apre una nuova era. Ad esempio, Hiroito (1901-1989) fu 昭和天皇 Shōwa Tennō, della Shōwa jidai o “Periodo della Pace Illuminata”, mentre l’attuale, Naruhito, è 令和天皇 Reiwa Tennō, della Reiwa jidai, ovvero “Periodo della Bella Armonia”.

L’incoronazione imperiale viene celebrata mediante l’utilizzo di tre tesori sacri, citati fin dal 690 d.C. con il termine 三種の神器 Sanshu no Jingi.

La prima la Spada del Paradiso o 天叢雲剣 Ama no Murakumo o Kusanagi, conservata nel Tempio di Atsuta. Il suo significato è il valore. La seconda è la Giada d Yasakani o 八尺瓊曲玉 Yasakani no Magatama, conservata nel Palazzo Imperiale di Tokyo. Il suo significato è la benevolenza. Ad ultimo lo Specchio Sacro, o 八咫鏡 Yata no Kagami, conservato nel più sacro dei templi giapponesi, ad Ise. Il suo significato è la saggezza.

La tradizione vuole che furono donati dalla dea Amaterasu stessa a Tinigi-no-Mikoto, inviato sulla terra per piantare il riso. Egli fu l’antenato di Jinmu, primo Tennō del Giappone. Ognuno di questi oggetti è conservato in un luogo diverso del paese, custodito da monaci scelti, e vengono mostrati al sovrano in una cerimonia di altissimo valore sacrale.

È grazie a rituali come questi, conservati con tenacia, dedizione e rispetto tutto nipponico, che il paese ha potuto conservare una lunga tradizione che affonda nel mito ancestrale in cui il mondo stesso era stato creato solo per il loro. Da questa consapevolezza, forgiata dal passare dei millenni, il Giappone ha trovato la forza per affrontare le sue titaniche sfide del passato, del presente e, di certo, anche del futuro.

Alberto Massaiu

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