Il Dao e la sua applicazione nella via del TaiJiQuan

Riceviamo da un nostro lettore e pubblichiamo con piacere un articolo introduttivo alla filosofia del Dao e alla sua applicazione fisica ed energetica nella pratica del TaiJiQuan

 

Prima di addentrarci nel discorso, credo sia doveroso chiarire l’ambito in cui ci muoveremo. Il presente articolo vuole essere una rapida analisi filosofica del concetto di Dao1 e del Daoismo; ciò vuol dire che non si pretende di dare una visione completa dell’evoluzione storica di tale filosofia (esistono personalità molto più autorevoli che hanno studiato e scritto su tale argomento), né tantomeno esaurire la vastità di speculazione filosofica che tale argomento offre (anche in questo caso esistono testi autorevoli e svariate interpretazioni che partono da un principio comune ma si dipanano in numerose direzioni più o meno differenti). Abbiamo, quindi, detto cosa questo testo non vuole essere; non ci resta che dire cosa vuole essere e cosa si propone.

Credo sia utile definirlo un compendio: questa breve composizione vuole essere la sintesi di tutte le letture e gli approfondimenti da me svolti sull’argomento, legata dalla mia interpretazione di essi. Non si pretende di dare una definizione assoluta del concetto, quanto una interpretazione relativa, partendo dai cosiddetti testi sacri del Daoismo e, da qui, descrivendo quanto ho compreso e la lettura che ho dato ad essi. Il testo resta, in sostanza, l’esposizione di un mio pensiero, frutto dell’evoluzione dei miei studi, delle mie letture e delle mie esperienze di vita, fatte di avvenimenti e discussioni con altre persone sulle tematiche più varie.

A conclusione ci sarà una breve digressione sul TaiJiQuan come arte marziale che prende a prestito i concetti Daoisti e li applica ad un contesto fisico e di combattimento.

Fatta questa doverosa premessa, che serva al lettore per capire con quale atteggiamento mentale e con quali occhi sia più utile approcciarsi al testo, possiamo iniziare il nostro percorso.

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TianRan chiese “Maestro, cos’è il Dao?”

Il Maestro rispose “Il Dao è il principio universale”.

DangRan chiese del Dao.

Il Maestro disse “Il Dao è ciò che era, ciò che è e ciò che sarà”.

ZiRan si avvicinò al Maestro e gli chiese “Maestro, come possiamo definire il Dao?”

“Il Dao è ciò per cui ogni cosa è” disse il Maestro.

Queste non sono frasi originali, ma, a mio modesto avviso, frasi verosimili che richiamano la forma dei Dialoghi di Confucio, ma argomenti trattati nei cosiddetti tre testi sacri del Daoismo: il DaoDeJing di LaoZi, lo ZhuangZi ed il LieZi, questi ultimi scritti dagli omonimi maestri, vissuti tutti tra il IV ed il III a.C.2

L’oggetto della speculazione è sempre il Dao, ma le risposte sono tutte leggermente differenti a seconda del soggetto che rivolge la domanda. Questo era tipico del metodo di insegnamento di Confucio, che offriva definizioni differenti ai differenti studenti, sostenendo che ognuno ha bisogno della risposta che più gli si confà. Similitudini le si trovano nella maieutica socratica, ma non divaghiamo.

Solitamente, a queste definizioni la gente associa un concetto di Dio, nella concezione occidentale, ma questa è una visione errata o, quantomeno, parziale. Questo perché spesso l’idea di Dio (tralasciando la personificazione della divinità, che è completamente assente nella definizione cinese di Dao) è associata ad un concetto positivo, di bontà, quindi il Dao viene associato come quel qualcosa che regola la natura e ne vuole il suo bene. Continuiamo ad essere in una visione incompleta, perché anche il concetto di “volere il bene” è permeato di sovrastrutture educative e condizionato nella sua interpretazione. Cosa vuol dire “bene”? 

A questo punto credo che sia opportuno inserire un’altra definizione, sempre parafrasando i testi sacri.

“Il Dao è ciò per cui un ubriacone beve ed un donnaiolo commette adulterio”.

Si inizia, quindi, a capire che l’accezione di bene è diversa da quella che solitamente le persone hanno: l’adulterio è comunemente considerato un atto empio e da condannare; eppure il Dao lo “giustifica” nel caso del donnaiolo.

Il Dao fa sì che, se una persona è ubriacona o adultera, ella dovrà comportarsi di conseguenza perché tale è la sua natura.

A questo punto, ci verrà in mente un altro concetto tipicamente occidentale, ossia il destino. Magari identificheremo il Dao con un qualcosa di predeterminato da cui quasi non si può fuggire ed a cui, in certa misura, rassegnarsi. E questo potrebbe essere rafforzato dal fatto che spesso, nei testi sacri, si incita l’individuo a non andare contro il Dao in quanto ciò rovina solo le cose.

Eppure, anche questa visione è errata, deviata dal senso profondo del Dao.

A mio avviso, identificando ciò che non è, man mano ci si avvicina a ciò che invece il Dao rappresenta. Nella mia interpretazione, il Dao è contemporaneamente immanente e trascendente: il Dao è presente nel mondo in ogni cosa ed ogni cosa ne è una sua manifestazione; ma è anche ciò che guida il mondo nel suo fluire, nonché un principio verso cui tendere nel nostro agire.

I seguaci del Daoismo, infatti, sono attratti dal Dao, spesso chiedono ai Maestri come fare a raggiungerlo. Ed i Maestri stessi si ritirano per giorni, mesi o anni a riflettere per poterlo raggiungere.

Il concetto di Dao appare sin dai testi più antichi della filosofia cinese, primo fra tutti lo Yi Jing, tradotto come “Il libro dei mutamenti”, pare risalente intorno al X secolo a.C., in cui si spiega la cosmologia cinese e sulla base del quale si formano maghi e stregoni, anche nei tempi moderni, che imparano ad interpretare i segni ed a leggere il futuro.

In questo testo tutto parte dallo WuJi, ossia il vuoto iniziale assoluto che vi era in principio.

Da qui il Dao ha comportato il movimento del WuJi e da ciò è nato il TaiJi, ossia il bipolarismo fondamentale della filosofia asiatica di Yin e Yang: quel concetto che viene simbolicamente rappresentato come un cerchio diviso in due parti, una bianca ed una nera, dove nel punto più ampio dell’area nera compare un punto bianco e viceversa3. Successivamente il testo riferisce che dal “due deriva il tre e dal tre le diecimila cose”, ossia si crea il mondo nella sua manifestazione concreta.

Il Dao, quindi, inizia ad esistere come il motore primo che comporta la creazione di tutto. Senza Dao, il WuJi non avrebbe iniziato il suo movimento e nulla si sarebbe creato, ma il Dao non è esterno al WuJi, ne è una sua componente intrinseca.

L’uomo, che è considerato nella filosofia cinese come l’anello di congiunzione tra cielo e terra, cioè tra immanente e trascendente, riconosce il Dao della terra nel mondo che calpesta ed il Dao del cielo dove tende alzandosi eretto verso il cielo.

Ma se asseriamo che il Dao è immanente, ciascuno di noi lo possiede e non dobbiamo ricercarlo fuori. Eppure, tutti gli studenti lo ricercano e studiano per trovarlo, comprenderlo e raggiungerlo. Come possiamo coniugare questi aspetti?

La risposta è sempre nei testi sacri in cui si narrano storie di uomini che hanno il Dao.

Spesso si legge di bambini, ad esempio. Il Maestro Lao Zi sostiene che il neonato “[…] sebbene gridi tutto il giorno, non diventa rauco […]”4: nella stessa situazione un adulto finirebbe rauco già dopo pochi minuti o al più poche ore. Il neonato, infatti, possiede il Dao, perciò la sua voce non perde intensità. Il bambino non sa che gridando si perde la voce e ciò gli garantisce il fatto di non perderla.

Ma ciò non appartiene solo al neonato.

Nello ZhuangZi leggiamo, ad esempio, la storia di un ubriaco che cade da un carro in corsa senza ferirsi. Si legge “[…] Le sue ossa e le sue articolazioni sono identiche a quelle degli altri uomini; ma il colpo che avrebbe ucciso un uomo nel suo stato normale, non basta a ucciderlo. Ciò perché la sua anima rimane intatta a causa dell’ebbrezza, e lui non ha coscienza di essere in carrozza e di caderne. La sorpresa, il timore della morte e della vita non penetrano in lui; cade pericolosamente ma senza provarne il minimo spavento. Se il vino gli salva la vita, come potrebbe il cielo non salvare gli uomini? Così il Santo si rifugia nel cielo e nulla può ferirlo […]”5.

L’aspirazione di tutti è, quindi, diventare come il saggio che possiede il Dao del cielo. Ed i sacri testi ci dicono anche che per raggiungere quello stadio occorre ricerca, meditazione e ritiro allontanandosi dalle passioni del mondo. Ma il percorso del saggio è un percorso circolare: “[…] Perciò il Santo desidera di non-desiderare e non dà valore ai beni difficili da ottenere. Egli si applica a non studiare e torna nel punto che tutti oltrepassano […]”6.

Si racconta anche che l’allievo di un Maestro, dopo aver preso la propria strada e diventato Maestro egli stesso ed essersi stanziato in un villaggio, invitò il suo mentore a venirlo a trovare. Il Maestro fu contento del risultato raggiunto dal suo vecchio allievo e parlando si incamminarono per andare a pranzare in una locanda vicina. Entrarono e mangiarono abbondantemente e quando fu il momento di pagare, il locandiere volle spontaneamente offrire il pasto in segno di rispetto verso il Maestro di quel villaggio. Vedendo tale scena il Maestro disprezzò il suo vecchio allievo in quanto egli si metteva in mostra e nulla aveva compreso del Dao.

Occorre, quindi, adoperarsi nella ricerca, nella comprensione e nel raggiungimento del Dao, ma una volta raggiunta tale conoscenza occorre dimenticarsene e tornare allo stadio originario, come il neonato o l’ubriaco. Questo è il processo auspicato dal Daoismo ed a cui i saggi tendono.

Ma esiste un ulteriore concetto che sembra quasi andare in contraddizione con “l’adoperarsi”: il principio dello WuWei ossia del “non agire”.

Quanto vi è di più morbido sopraffà quanto vi è di più duro. Ciò che non ha sostanza penetra anche dove non ci sono fessure. Da ciò riconosco il valore del non agire. L’insegnamento senza parole e il valore del non agire sono compresi da pochi al mondo”7.

O ancora “Colui che si applica allo studio aumenta ogni giorno. Colui che pratica la Via diminuisce ogni giorno. Diminuendo sempre di più, si arriva al Non-agire. Non agendo, non esiste niente che non si faccia”8.

Questo principio del non agire è spesso richiamato nelle arti marziali e chi le pratica sicuramente ne ha familiarità.

Una delle arti marziali forse lo fa proprio più delle altri ed essa è il TaiJiQuan, ossia la boxe (Quan) del TaiJi. 

Questa arte marziale, infatti, si basa sui principi Daoisti e soprattutto sul concetto di TaiJi (il bipolarismo Yin e Yang) e sul concetto del WuWei. Il TaiJiQuan, infatti, è chiamata arte marziale interna perché inverte il percorso canonico marziale in cui si rafforza il fisico per essere forti combattenti; nel TaiJiQuan si eseguono movimenti morbidi, lenti, l’attenzione è focalizzata sulla circolazione energetica che dapprima segue e successivamente guida ogni movimento. Il praticante, negli anni di pratica, raggiunge una comprensione sempre maggiore di come l’energia fluisce nel proprio corpo e successivamente come essa fluisce in relazione al compagno di pratica o all’avversario.

Nell’applicazione in coppia il principio del non agire si sostanzia nel non muoversi se l’altro non si muove e nel non contrastare il movimento dell’altro, ma assecondarlo. Il principio del TaiJi si sostanzia, invece, nell’applicare ad una forza dell’avversario la forza ad essa complementare, perciò, banalizzando, se l’avversario spinge io tiro e viceversa creando nell’altro uno sbilanciamento e riuscendo a prevalere in modo naturale senza contrasto.

Stessi principi si applicano nell’esecuzione della forma, fatta individualmente, in cui il non agire si sostanzia nel non muovere le parti del corpo in maniera scollegata, ma far sì che l’energia ed il movimento interno comportino il movimento esterno del corpo. Ed Il dualismo Yin e Yang si sostanzia nel bilanciare il proprio corpo avendo “pieno” e “vuoto” in armonia e ben distinti (e quindi, ad esempio, le gambe molto presenti e radicate e la parte superiore del corpo leggera come una canna di bambù al vento, oppure avere una mano ed un braccio “pieni” ossia pronti a colpire e l’altra “vuota” ossia pronta ad assorbire o a deviare attacchi eventuali dell’avversario).

Il TaiJiQuan è un’arte marziale che lega molto aspetti meditativi e di introspezione: chi cerca uno strumento per combattere o difendersi non troverà soddisfazione nei primi anni di pratica, in quanto l’applicazione di tali principi necessita di un processo lungo e costante. “Un anno di ShaoLin corrisponde a dieci anni di TaiJiQuan” si dice, ad esempio, proprio a dimostrazione che l’interiorizzazione dei principi affinché vi sia abilità marziale è un cammino lungo e complesso.

Ma anche chi fa ShaoLin arriva alla meditazione ed alla coltivazione dell’energia ed alla ricerca della morbidezza. Solo che il percorso è inverso in quanto parte dal duro per arrivare al morbido, mentre il TaiJiQuan parte dal morbido per arrivare al duro.

[…] Il Maestro Yu Xiong disse: “Se si vuole essere rigidi, bisogna conservare in sé la flessibilità; se si vuole essere forti, bisogna conservare in sé la debolezza. È accumulando la flessibilità che si diventa rigidi; è accumulando la debolezza che si diventa forti. Osservando quello che viene accumulato si può comprendere l’origine di fortuna e disgrazia. Il forte ha il sopravvento su chi non è forte quanto lui, ma quando incontra chi ne eguaglia la forza ecco che diventa rigido; quando invece è il debole che ha il sopravvento sul forte, si può parlare di forza incommensurabile. Laozi disse “Se un’arma è troppo rigida non permette di vincere, se un albero è troppo rigido si spezza. Ciò che è flessibile e debole è compagno della vita; ciò che è rigido e forte è compagno della morte” […]”9.

Ovviamente sarebbe assai sbagliato e infinitamente riduttivo per il Daoismo considerare il TaiJiQuan una pratica che porta alla comprensione dei Dao. Ma esso è uno strumento, una possibile via da seguire nella ricerca e nella comprensione. Comprendere l’arte marziale necessita poi di dimenticare l’arte marziale e di applicare i principi in tutto il resto dell’esistenza dell’individuo.

Altri metodi più intimistici, come la meditazione o lo studio dei testi portano ad una comprensione filosofica più profonda, ma poi ciò dovrà essere applicato ad un contesto reale, ad un “combattimento” nella vita reale e solo allora sarà evidente quanto si è compreso e quanto il compreso è stato interiorizzato.

Vorrei chiudere questo breve excursus sul Dao con un’altra frase parafrasata dai testi sacri.

Chi si allena incessantemente nella giusta direzione arriverà a spostare la montagna. Chi ha il Dao saprà anche non spostarla.

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Abbiamo capito, quindi, che non è possibile dare una definizione di Dao, in quanto essa non farebbe altro che limitarlo e vincolarlo nel suo reale significato. Il Dao lo si può “annusare”, lo si può “percepire” leggendo mille storie, tutte differenti tra loro, ma tutte collegate da questo profondo legame concettuale che il Dao stesso rappresenta.

Nel LieZi si legge un racconto sull’Imperatore Giallo10 ed un suo sogno avuto dopo 3 mesi di “digiuno della mente”. Svegliatosi disse ai suoi sudditi “[…] Ora so che il Dao supremo non può essere realizzato attraverso le emozioni. Ora sì che lo conosco! Ora sì che l’ho realizzato! Tuttavia non mi è possibile descrivervi a parole lo stato in cui mi trovo […]”11.

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1 Il Dao è presente in tutte le correnti filosofico-religiose asiatiche, seppure la filosofia che lo ha reso più celebre sia probabilmente il Daoismo (o Taoismo secondo una traslitterazione usata in passato quando si prediligeva la fonetica Wade-Giles).

2 Questi Maestri Daoisti (e soprattutto LaoZi) si perdono nella notte dei tempi e si mescolano con la leggenda; non si ha, quindi, certezza della loro esistenza storica o se sono semplicemente personaggi di fantasia che rappresentano un Maestro/Saggio ideale.

3 Questo particolare sta a significare che nel momento di massima espressione della polarità Yang nasce lo Yin, che cresce e prevale sullo Yang, fino a raggiungere il proprio culmine dove nasce nuovamente lo Yang e ricomincia il circolo infinito.

4 Tao te ching Il Libro della Via e della Virtù, edizione a cura di J.J.L. Duyvendak, Gli Adelphi – LV.

5 Zhuang-Zi, a cura di Liou Kia-Hway, Gli Adelphii – XIX.

6 Tao te ching Il Libro della Via e della Virtù, edizione a cura di J.J.L. Duyvendak, Gli Adelphi – LXIV.

7 LaoZi, 43, traduzione di Augusto Sabbadini.

8 Tao te ching Il Libro della Via e della Virtù, edizione a cura di J.J.L. Duyvendak, Gli Adelphi – XLVIII.

9 LieZi, La scrittura reale del vuoto abissale e della potenza suprema, a cura di Alfredo Cadonna – 2.17.

10 Mitica figura della tradizione cinese a cui si deve il primo desto di medicina tradizionale cinese ad oggi ancora considerato il punto di riferimento per la sua pratica.

11 LieZi, La scrittura reale del vuoto abissale e della potenza suprema, a cura di Alfredo Cadonna – 2.1.

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