Populismo, Dietrologia e Dominio

Populismo, Dietrologia e Dominio

Contro l’ideologia della mancanza di alternative

 

In un breve saggio sul populismo di destra e di sinistra, contenuto nel recente Dal punto di vista comunista, Slavoj Žižek afferma che occorrerebbe appoggiare il populismo di sinistra, ben sapendo che fallirà, con l’augurio che dal fallimento possa emergere qualcosa di nuovo. Il filosofo sloveno è convinto che i populismi siano fenomeni permessi dal sistema capitalistico proprio perché questi riuscirà, tramite il loro fallimento, a ottenere la conferma di sé e lo sparigliamento dell’avversario al momento apparentemente più pericoloso. Per Žižek ogni istanza che proviene dal basso, che sia la lotta contro la migrazione o l’uscita dall’Ue, e per quanto sia giustificata, si rovescia in un fallimento finalizzato a dimostrare, sempre e ancora di più, quanto non esistano alternative al modello omnipervasivo imperante. Questa dinamica spinge Žižek all’affermazione estrema: occorre accelerare la disfatta populista per ottenere un nuovo modello di politica che possa finalmente proporsi come paradigma efficace contro il dominio contemporaneo.

Ciò che rende questo dominio profondo e difficile da scalzare non è solo l’effettivo rapporto di potere che c’è tra l’élite e il popolo – di natura economica come bene insegna Marx -, ma anche un’egemonia – una forma ideologica, un sistema di sapere – che relega qualsiasi discorso contrario a questa all’ambito della non-verità o, nel caso più estremo, a quello del tabù. A contribuire al trionfo della narrazione egemonica c’è il fatto che i pozzi del populismo sono fortemente inquinati dalla tendenza digitale “democratica” a mescolare il vero e il falso, in un innegabile circolo consequenziale costituito da populismo e contro-narrazione. Una circolarità che conduce il populismo ad abbeverarsi a piene mani dalla fonte digitale, percepita come spazio di verità e critica.

Il sapere egemonico è un muro impenetrabile che trae proprio la sua forza dal fatto che si sa che si tratta di una ideologia, ma che si fa finta di nulla: l’alternativa è negata in potenza, pur quando si sa che l’impianto ideologico non ha lo statuto di verità, ovvero lo status attraverso cui è proposto. C’è un elemento perverso in questa ideologia manifesta: tutti sanno che il libero mercato è un’idiozia, ma ce lo teniamo stretto come unico meccanismo di funzionamento economico possibile, poiché ci rifiutiamo di inforcare gli occhiali che ci permettono di vedere la verità che l’ideologia cela; e anche quando la vediamo, lottiamo perché questa venga mantenuta salda e al suo posto come unico senso del mondo – non può che venire alla mente la bellissima analisi fatta da Žižek della scena centrale del film di John Carpenter Essi vivono compiuta in Guida perversa all’ideologia, ma emerge qui anche il senso più pieno della scena di Matrix dei fratelli Wachowski in cui il ribelle traditore vuole tornare nella macchina, perché il mondo disintegrato in cui si trova non ha altro senso se non questa verità svelata che coincide con una libertà da post-consumismo e ben lontana da quella economica neoliberale del godimento edonistico: non a caso il ribelle viene convinto a tradire l’ideale e i compagni dal gusto di una costosa bistecca in un ristorante di lusso.

L’ideologia politica ed economica contemporanea è una barriera che stabilisce il limite del vero, attraverso un sapere tecnico spacciato per impolitico e neutro. Un esempio paradigmatico è il rapporto istituito tra governance ed economia politica; un altro emblematico è la presunta irreversibilità dei trattati europei. Di fatto vengono stabiliti degli interdetti del discorso: la governance è una tecnica di governo che in economia sarebbe neutra e non si possono riscrivere i trattati, così come non si può uscire dall’Ue – come se le azioni sociali degli uomini fossero degli irreversibili storici, cioè degli assoluti: si tratta qui della negazione del piano storico e del trionfo di una falsa metafisica strumentale in cui l’accidente si fa essenza.

A questa dimensione del funzionamento dell’ideologia, occorre sommare il fatto che il populismo di destra e di sinistra si poggia proprio su quella forza che è stata la ricerca della verità alternativa e che ha trovato il proprio luogo di diffusione non tanto nelle università, quanto nella rete. Tuttavia, il materiale proposto dai guru del vi dico come stanno le cose o dell’accadrà questo – e che non ci pigliano mai – concorre proprio a rendere impossibile – doppia vittoria delle élite – la credibilità di un discorso in cui l’analisi del potere contemporaneo si compia, ad esempio, come lotta di classe, senza che questo venga accusato di essere il classico complotto che vede i potenti della terra seduti a tavolino per definire politiche trentennali. Con una retroazione ogni discorso che cerchi di infrangere gli interdetti viene reintegrato nella pletora di categorie create proprio per far funzionare l’interdetto.

Si pensi, per esempio, al politicamente corretto come insieme categoriale che nega il conflitto razziale per mezzo della modulazione di un codice lessicale che dovrebbe infrangere le differenze, ma che, invece, le esacerba proprio perché impedisce di affrontare dialetticamente il problema dell’integrazione o delle migrazioni dei popoli stranieri. Una categorizzazione che fa uso più di assunti ipocritamente moraleggianti da individualismo del benessere che di politiche sociali. D’altronde l’ipocrisia consiste proprio nell’utilizzare i termini corretti nel discorso pubblico, cosicché nel privato ci si possa completamente disinteressare della condizione di povertà altrui, che, in fondo, viene schernita, accettata come ordine delle cose e percepita come segno di colpa o irresponsabilità individuali di chi è nella condizione di emarginato.

Forse questo circolo vizioso che alimenta populismo e teorie del complotto dipende anche dalla cultura occidentale che ha perso un punto di riferimento fondamentale, cioè quella filosofia del sospetto che in Nietzsche, Freud e Marx vedeva i suoi grandi e geniali esponenti e che ha esaurito il suo appeal a vantaggio di una narrazione che finge di costruire narrazioni alternative, mentre affabula con forza, inanellando argomentazioni menzognere. Di certo questo legame è forte anche a causa della crisi di rappresentanza che assale le democrazie liberali occidentali. Non è un caso che nel 2011 William Vollmann, nel suo reportage su Fukushima Zona proibita, fosse totalmente stupefatto della capacità delle autorità giapponesi di non dire nulla e che questa fosse pari solo all’assurdo grado di fiducia che l’opinione pubblica ripone in esse, contrapponendo a questo atteggiamento la cinica diffidenza dell’elettorato americano che fa il paio con la compiaciuta e, talvolta, spudorata disonestà delle corrispettive autorità. In un momento storico in cui le università sono il luogo di produzione delle banalità del politicamente corretto e della difesa del sapere borghese, tuttavia, si ha un rovescio perverso, per cui il potere dominante definisce ogni istanza critica, anche la più fondata, come una forma dietrologica o complottista, contribuendo al trionfo della notte in cui tutte le vacche sono nere.

Un esempio potrebbe essere descritto da una scenetta vissuta di persona e che si ripete sempre. Nel tentativo di mostrare che la governance europea dell’austerity si fonda sull’ideologia del debito, viene molto comodo spiegare, tramite Il colpo di stato di banche e governi di Luciano Gallino, che dopo il 2010 la propaganda della stampa ha trasformato quello che era uno stato d’accusa contro le banche in un atto d’accusa contro gli Stati, i quali sarebbero vissuti al di sopra delle proprie possibilità. Si tratta di un cambiamento di obiettivo che ha reso possibile un’azione politica con due effetti: la trasformazione del debito privato (quello delle banche) in debito pubblico e la vittoria del capitalismo finanziario in una lotta di classe al contrario. Detto diversamente, attraverso lo spostamento dell’attenzione dell’opinione pubblica da un nemico reale a un nemico fittizio – se stessi -, il debito delle banche sull’orlo del fallimento si è trasformato in quello pubblico, attraverso una partita di giro che ha permesso che le tasse dei cittadini venissero date agli speculatori finanziari per non fare crollare il meccanismo del finanzcapitalismo – mentre quello dell’economia reale che sfama tutti boccheggia dagli anni Settanta proprio a causa del meccanismo che produce denaro dal denaro. A questo punto della narrazione, nonostante venga citato un sociologo illustre, ecco la classica reazione: sorrisetto dell’interlocutore – solitamente coltissimo progressista – e accusa netta di complottismo – a cui si associa sempre quella di fascismo e nazionalismo, in una pletora di ismi totalmente arbitrari.

Una spiegazione filosofica in termini di rapporti produttivi e di potere è quindi ascritta all’ambito delle teorie populiste, poiché deve essere depotenziata in quanto verità contro il sistema del finanzcapitalismo o la governance tecnocratica dell’Ue: una forma di sapere viene quindi depotenziata attraverso il suo accostamento derisorio alle follie cospirative – è notevole come Michel Foucault nel suo ultimo corso al Collège de France su Il coraggio della verità parlasse proprio della filosofia e del filosofo come di ciò che sono tali anche perché irriconoscibili e irrisi, configurando la derisione di un sapere come strumento di un meccanismo di limitazione della credibilità di discorso e di una vita vera. Ecco l’operazione pratica attraverso cui l’interdizione del discorso critico istituisce, protegge e fortifica il tabù del neoliberismo come unica verità economica, antropologica e politica.

In aiuto nell’operazione di depotenziamento di questa verità accorrono Marco D’Eramo e il suo recentissimo Dominio, in cui si mostra la dimensione reazionaria del neoliberismo, fondata su un conflitto di classe che non si sarebbe affatto esaurito negli anni Ottanta, grazie al compimento di un mondo pacificato capitalistico e liberale, bensì che si sarebbe rovesciato in una lotta che, a parti inverse, cominciava, proprio da quegli anni, a portare a casa i risultati di un lungo investimento cominciato molto prima. Le fini ricerche dell’autore dimostrano come già a partire dagli anni Sessanta la controffensiva al socialismo abbia mosso i suoi passi dall’altra parte dell’Atlantico per mezzo di continui finanziamenti milionari alle università, con il fine di imporre quel pensiero economico neoliberista che fa di ognuno di noi un piccolo imprenditore senza futuro – l’Homo Œconomicus. Un flusso costante ed enorme di denaro che ha travolto la cultura socialista, per mezzo di lasciti alle università, fondazioni, finanziamenti per pubblicazioni e think tank. Una contromossa reazionaria che nell’arco di sessanta anni ha reso fuori dai giochi chi non lavorasse all’interno di un paradigma – usando una categoria di Thomas Kuhn – che non neghi la funzione dello Stato sociale a vantaggio dell’espansione del privato in ogni ambito, poiché più razionale e funzionale. Un’ideologia paralogica in cui la concorrenza – cioè la competizione – si tiene con la collaborazione e che fa affermare, senza remore, a un qualsiasi laureato contemporaneo che la competizione contribuisce al benessere economico, ma che la guerra fa schifo – il tutto arricchito dal classico sorriso beota da moralista in faccia.

Il lavoro D’Eramo si muove su innumerevoli piani che dispiegano lo Zeitgeist dell’Homo Œconomicus senza alternativa economica e politica. Uno Zeitgeist da nichilismo ormai compiuto, in cui meontologia e ontologia sono la stessa cosa, in cui i bambini possono essere venduti come futures e in cui i padri spirituali dell’umanità – Buddha, Cristo e Maometto, ma anche Socrate e Marx – vengono descritti, in maniera completamente anacronistica e astorica, come imprenditori ideologici. Un nichilismo che non è solo un salto nel vuoto assiologico, ma anche lo sprofondamento di un’umanità senza più il senso della storia come luogo delle speranze da realizzare.

D’Eramo, con la sua fine genealogia, mette una croce su ogni narrazione populista che trae forza dai deliri di youtube e, a chiare lettere, mostra che non c’è mai nessun complotto in corso, che nessuno circolo ristretto di persone può definire in maniera programmatica ogni singolo momento della storia dell’uomo, ma che di sicuro la lotta di classe è stata talmente presa sul serio da chi stava per essere sconfitto da averne mutuati gli strumenti, con il fine di rovesciare l’egemonia culturale e di garantire il proprio dominio e fargli assumere il margine della pensabilità. D’Eramo, insomma, dimostra che il potere economico – come già Marx pensava e come Gramsci confermava – può scrivere le categorie attraverso cui la realtà è letta e che la vera filosofia è sempre il tentativo di mostrare quanto potere e dominio totalizzante in esse si nasconde.

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