DI KEVIN SWIERKOSZ-LENART
II– Il coraggio di andare oltre il dogma
Borges affermava che il dubbio fosse uno dei nomi dell’intelligenza. Kant riteneva di poter misurare l’intelligenza di un individuo dalla qualità d’incertezze che è capace di sopportare. Lo psicoanalista Bion poneva come obiettivo di ogni terapeuta un lavoro di sviluppo della negative capability. Egli mutuava questo concetto da una lettera di John Keats ai suoi fratelli, nella quale il poeta scrive:
“ (…) ho capito qual è la qualità che ci vuole per fare un uomo di successo, in particolare in letteratura, (…) intendo dire la Capacità Negativa e cioè quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione.”
Penso a tutto questo rispetto ad uno slogan del presidente francese Macron:
“Siamo la nazione della Scienza, dell’Illuminismo, di Pasteur, quando la scienza ci offre i mezzi per proteggerci, li dobbiamo usare con fiducia nella ragione e nel progresso.”
Trattasi, per l’appunto, di uno slogan. Forse non tutti conoscono l’etimologia di questo termine, che io desumo dalla bella descrizione che ne offre Elias Canetti in Massa e Potere:
L’esercito dei morti vola di qua e di là in grandi nuvole, come gli storni sopra la faccia della terra. Essi tornano sempre sul luogo delle loro colpe terrestri. Con le loro infallibili frecce avvelenate essi uccidono gatti, cani, pecore e armenti, combattono battaglie per l’aria, così come gli uomini in terra. Nelle notti chiare e gelide si possono sentire e vedere i loro eserciti avanzare l’un contro l’altro e ritirarsi, ritirarsi e avanzare. Dopo una battaglia il loro sangue tinge di rosso rocce e pietre. La parola ghairm significa urlo, grido, e sluagh-ghairm era il grido di battaglia dei morti. Ne è derivata più tardi la parola slogan: la denominazione del grido di guerra delle masse moderne deriva dall’esercito di morti degli Highlandsi.
Slogan è quindi un grido di morte, perché privo della dialettica propria della vita. È la formula liturgica dell’epoca dei consumi, che si sostanzia in pubblicità e finalmente in propaganda politica. La prima traccia di questa transizione dal commercio alla vita pubblica dello slogan si ritrova, a mia conoscenza, nel Mein Kampf di Hitler. È principalmente a lui che dobbiamo la teorizzazione sistematica dell’adozione dello slogan in politica.
Ecco, questo nesso associativo che abbiamo appena istituito fra illuminismo e totalitarismo è lungi dall’esser peregrino. Mi si dirà che oggi è diventato tabù riferirsi alle dittature del ventesimo secolo, perché tale privilegio apparteneva alla sinistra italiana quando aveva bisogno di riferirsi al famigerato “ventennio” berlusconiano (in cui il centro-destra è stato al governo per nove anni contro undici di una sinistra impotente, che nulla ha fatto in materia di conflitto di interessi) fino ad arrivare alle recentissime e bislacche trovate del fascistometro murgiano. Abbiamo avuto Carofiglio in televisione che invitava il pubblico a pensare alla retorica salviniana rifacendosi a La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer. Ma di fronte ad un divieto di entrare in un ristorante non supportato, a mia conoscenza, da alcun articolo peer reviewed sull’efficacia di tale misura nel prevenire i contagi, non si può evocare lo spettro di una coartazione abusiva della libertà. Può sembrare che io stia completamente delirando e citi gruppi telegram illegali, quando invece ho in mente un articolo di Carlo Merzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani apparso su Il Sole 24 ore il 24 novembre 2021 in cui si leggeva:
Non ci scandalizzano divieti e sanzioni, dopo i due anni che ci siamo lasciati alle spalle, se questi sono indispensabili per non tornare là da dove veniamo. Ci lasciano perplessi, invece, imposizioni prepotenti, tanto o poco non importa, come sempre lo sono quelle che derivano dalla voglia di indurre con le cattive chi non si lascia convincere con le buone. Anche quando costui ha torto.
Fortuna che il non semplice compito di cercare l’intersezione fra illuminismo e totalitarismo non tocchi a me, ma sia stato assolto egregiamente da due campioni del marxismo del ventesimo secolo come Horkheimer e Adorno. Proprio al loro volume redatto a quattro mani, “Dialettica dell’illuminismo”, vorrei dedicare la parte più dettagliata e articolata della mia riflessione.
Il libro di cui parlo è stato pubblicato per la prima volta in America nel 1944, come ciclostilato, con il titolo di Philosphische Fragmente. Gli autori si trovavano lontani dalla loro patria in quanto ebrei, lavoravano principalmente offrendosi come tecnici delle scienze sociali ma non rinunciavano alla propria passione filosofica. La natura frammentaria del testo, evidente dal primo titolo che lascerà il posto a quello definitivo solo nel 1947, costituisce già una forma di rivolta contro il totalitarismo razionalizzante. Leggiamo infatti nel testo:
E quando l’illuminismo può svilupparsi indisturbato da ogni oppressione esterna, non c’è più freno. Alle sue idee sui diritti degli uomini finisce per toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che aumentare. Ciò deriva dal fatto che l’illuminismo riconosce se stesso anche nei miti. Quali che siano i miti a cui ricorre la resistenza, per il solo fatto di diventare, in questo conflitto, argomenti, rendono omaggio al principio della razionalità analitica che essi rimproverano all’illuminismo. L’illuminismo è totalitario.ii
Si tratta dunque di recuperare una libertà frammentaria, incompleta, umana, rispetto al progetto totalizzante e disumanizzante del razionalismo come orizzonte ultimo. La chiave di comprensione dell’intero testo si annida nella inclusione della dimensione mitica entro quella illuministica, secondo una linea di continuità che congiunge l’Odissea a De Sade, così come apprendiamo fin da queste righe preliminari: “L’illuminismo riconosce se stesso anche nei miti”.
Per illuminismo, infatti, gli autori intendono la pulsione volta a rimuovere le paure dell’uomo di fronte al mondo per farne il padrone della realtà. Si coglie a questo punto il fatto che le considerazioni svolte in precedenza circa il sentimento oceanico e la dialettica io/realtà sviluppata da Freud ne Il disagio della civiltà non fossero stravaganti rispetto al tema che mi sono proposto di indagare.
Già il mito, questa l’intuizione profondissima di Adorno e Horkheimer, si inserisce nel solco dell’illuminismo, in quanto cerca di fornire spiegazione, comprensione e controllo su un reale indomito. Non siamo più in ambito magico di mimesi e dialettica vitale con il reale e con se stessi – la coppia che Marcuse ravvisa in Narciso e Orfeo, i due “anti-miti” di Eros e Civiltà – ma piuttosto con il mito si stabilisce che:
Le divinità olimpiche non sono più direttamente identiche agli elementi, ma li significanoiii
Siamo già in un ambito di controllo, di dominio sul reale che ad uno psicoanalista appare già come sintomo, poggiato su quella prima frattura insanabile fra io e realtà da cui scaturiscono le pulsioni libidiche verso gli oggetti e quelle di morte intese come eterodistruttività (Thanatos) e autodistruttività (il Nirvana uterino). In questo senso, nel volere andare oltre il mito, l’illuminismo resta confinato in un ambito puramente mitologico, quello del controllo:
Si dà ragione a ciò che è di fatto, la conoscenza si limita alla sua ripetizione, il pensiero si riduce a tautologia. Quanto più l’apparato teorico si asservisce tutto ciò che è, e tanto più ciecamente si limita a riprodurlo. Così l’illuminismo ricade nella mitologia da cui non ha mai saputo liberarsi.iv
Trovo questa constatazione quanto mai pertinente. Considerazioni analoghe, circa la convinzione di riproducibilità e controllo, che sono la radice psicologica dell’esigenza scientifica, vengono mosse dal fisico e filosofo austriaco Ernst Mach, la cui opera avrebbe avuto grande influenza su uno dei massimi romanzi del ‘900, mi riferisco a “L’uomo senza qualità” di Musil. Proprio Robert Musil dedicò il proprio lavoro di dottorato alle teorie di Mach, e nella sua tesi leggiamo:
“Quando parliamo di causa e di effetto” dice Mach “mettiamo arbitrariamente in evidenza quei momenti il contesto dei quali noi dobbiamo considerare nel riprodurre l’immagine di un fatto nella direzione per noi importante. In natura non esiste né causa né effetto. La natura esiste una volta sola. Ripetizioni di casi eguali, nei quali A fosse sempre legato a B, dunque esiti eguali in circostanze eguali, dunque l’essenziale del contesto di causa ed effetto, esistono solamente nell’astrazione che noi operiamo allo scopo di riprodurre i fatti.”v
In questo si coglie la natura aggressiva del pensiero scientifico, sotto il profilo psicoanalitico. Si badi bene, ci tengo a precisarlo, che il lessico da me impiegato ha natura squisitamente tecnica ed è lungi dal piegarsi ad un moralismo di bassa lega o, peggio, ad un sentimento antiscientifico. Si tratta piuttosto di un tentativo di comprensione delle ragioni ultime di una pulsione che accompagna l’uomo fin dagli albori della civiltà. Che la scienza produca un dominio reale e una potenza reale sul mondo è fuori discussione. Qui si pone in esame la ragione che spinge l’uomo verso la scienza e si mette in discussione il carattere veritativo ultimo e imprescindibile di quest’ultima. Tornando al termine “aggressivo”, esso è giustificato dal fatto che l’astrazione opera una perversione e una trasformazione del reale. Una sua feticizzazione quanto meno – se anche volessimo rinunciare alle considerazioni che Mach svolge sulla scorta del sensismo di Hume – nel desiderio di coglierne solo gli aspetti misurabili. In tal senso, tale lemma risulta pienamente coerente alla luce delle considerazioni svolte da Freud ne “Il disagio della civiltà”.
Rispetto a queste considerazioni appare allarmante, spero, pensare che i moderni garanti della verità si chiamino fact checker. Carlo Ginzburg disse che la frase più sciocca del ventesimo secolo sarebbe stata, probabilmente, la domanda di Stalin: “Quante divisioni ha il papa?” Io credo che con la definizione del fact checker noi siamo riusciti, sulla soglia del ventunesimo secolo, a dire di già la cosa più stupida che si potesse dire per i prossimi cento anni. Risulta infatti abbastanza evidente, a chiunque coltivi il vizio di pensare, quello che affermano Horkheimer e Adorno:
La percezione è possibile solo in quanto la cosa è già percepita come determinata, ad esempio come caso di un genere. È immediatezza mediata, pensiero che ha la forza seducente della sensibilità. Elementi soggettivi sono ciecamente introdotti, da essa, nella datità apparente dell’oggetto. Solo il lavoro autoconsapevole del pensiero (secondo l’idealismo leibniziano e hegeliano: la filosofia) può tornare a sottrarsi a questa allucinazione. Come il pensiero, nel corso della conoscenza, identifica i momenti concettuali immediatamente presenti nella percezione e perciò di carattere necessitante, li recupera poco a poco nel soggetto e li spoglia della loro violenza intuitiva. Nel corso di questo processo ogni stadio precedente, anche quello scientifico, si rivela, nei confronti della filosofia, ancora in qualche modo come percezione, come fenomeno estraniato, pieno di elementi intellettuali non riconosciuti; arrestarvisi, senza negazione, rientra nella patologia della conoscenza. Chi assolutizza ingenuamente, per quanto universale possa essere il raggio della sua azione, è un malato, e soggiace all’abbaglio della falsa immediatezza.vi
Il riconoscimento di una pulsione aggressiva nel razionalismo illuminista, inteso kantianamente come audacia di usare il proprio intelletto senza la guida un altro, ci porta specularmente alla tendenza nirvanica che in esso si annida egualmente. L’astrazione che, infatti, si pone come punto di negoziazione fra io e realtà, non si adegua perfettamente a nessuno dei due poli. Leggiamo a tal proposito in Dialettica dell’illuminismo:
Non solo le qualità vengono dissolte nel pensiero, ma gli uomini sono costretti alla conformità reale. […] Gli uomini hanno avuto in dono un Sé proprio e particolare e diverso da tutti gli altri, solo perché diventasse tanto più sicuramente identico. Ma poiché esso non si adeguò mai del tutto, l’illuminismo ha sempre simpatizzato, anche durante il periodo liberale, con la costrizione sociale.vii
La distruzione del giudizio umano, che immola la sensibilità all’altare del razionalismo volto alla riduzione di tutto al puro segno matematico, alla statistica, connota la furbizia sciocca secondo i due autori, in una pagina che ha una sinistra risonanza con l’attualità:
I furbi hanno reso ovunque la partita facile ai barbari, poiché sono così sciocchi. Sono i giudizi orientati e lungimiranti, le prognosi fondate sulla statistica e sull’esperienza, le affermazioni che cominciano col dire “In fin dei conti me ne intendo pure”, sono gli statements solidi e conclusivi, che sono eminentemente falsi.viii
Questa tendenza nirvanica, perseguita ciecamente, si ravvisa nel fastidio epidermico che suscita il ricorso a concetti umani in questi giorni dominati dalla “statistica e dall’esperienza”. Un dibattito sereno sulla libertà è bandito, e guai ad invocarla. Il ricorso alla Costituzione e alla legalità sembrano capziosità sterili. La volontà umana di prossimità e normalità viene giudicata irresponsabile. Conta solo un’astrazione, un desiderio di ridurre il numero che è à la page in un determinato momento, che sia il famigerato indice Rt, il numero dei contagi, il numero delle terapie intensive, il numero dei non vaccinati, il numero dei giorni di quarantena, il numero di regioni in rosso.
La distruzione del concetto umano, dell’idea, perseguita ciecamente dal razionalismo resosi autonomo dalla ragione che dovrebbe ragionarlo, è descritto con precisione nel libro che stiamo analizzando, e precisamente nel passaggio seguente:
Da ultimo, con le idee di Platone, anche le divinità patriarcali dell’Olimpo sono investite dal logos filosofico. Ma nell’eredità platonica ed aristotelica della metafisica l’illuminismo riconobbe le antiche forze e perseguitò come superstizione la pretesa di verità degli universali. Nell’autorità dei concetti generali esso crede ancora di scorgere la paura dei demoni, con le immagini e riproduzioni dei quali, nel rituale magico, gli uomini cercavano di influenzare la natura.ix
processo auto ed eterolitico insito nel processo di individuazione descritto da Freud. Rispetto a questi due orizzonti, dai quali egli evade con una forza propositiva che purtroppo non eguaglia quella analitica, Marcuse propone l’immagine dell’uomo in armonia con la natura (Orfeo) e con se stessi (Narciso), secondo la massima ripresa da Bachelard:
Alors Narcisse ne dit plus: « Je m’aime tel que je suis », il dit « Je suis tel que je m’aime »x
Trovo curioso il fatto che tanto Freud quanto Marcuse lambiscano un mito moderno, di estrema potenza e attualità, che tuttavia è d’immediato reperimento per noi e difficile da evocare per dei pensatori non italiani. Si consideri il passaggio seguente di Eros e Civiltà:
Freud considera questa tendenza regressiva come un’espressione dell’”inerzia” della vita organica, ed egli azzarda la spiegazione seguente: nel tempo in cui la vita si generò dalla materia inanimata, si creò una forte “tensione” e il giovane organismo tentò di liberarsene ritornando alla condizione inanimata.xi
Se a questo si aggiunge quanto riportato da Carlo Galli nell’introduzione dell’edizione italiana di Dialettica dell’illuminismo, e cioè che la scuola di Francoforte fu accusata di essere un’“utopia del Paese di Cuccagna”, si scova subito la prossimità feconda con l’immagine di Pinocchio, il quale è lungi dall’essere un semplice libro per l’infanzia. Per chi abbia dimestichezza con la lettura critica che va da Manganelli fino al recente libro di Agamben, risulta evidente il fatto che l’immagine del burattino sia un simbolo estremamente forte del desiderio di fuga “dall’umano e dall’inumano”.
Il libro di Horkheimer e Adorno accorda grande spazio e importanza a due immagini letterarie: quella di Odisseo, inteso come protoborghese e protoilluminista, e quella della Juliette di De Sade. Il primo è un’immagine della castrazione del desiderio in nome della pura ragione, della conoscenza che non gode, simboleggiata dalla resistenza al canto delle sirene. La seconda è l’immagine grottesca dell’ideale kantiano del sapere aude: la ragione svincolata da ogni limite, che diviene solipsismo distruttivo, depravazione, secondo un sentido filosofico e analitico che si ritroverà successivamente in Foucault, debitore di De Sade nel suo “Le parole e le cose”, fino alla cinematografia pasoliniana.
Il razionalismo antiumano, che oggi vediamo nel suo connotato scientista profetizzato da Freud in “Psicologia delle Masse e analisi dell’io”, ci ha in realtà accompagnati alla soglia di questo periodo così tragico. Era un razionalismo economico, fino a ieri, e la sua portata era stata colta alla perfezione da Michel Foucault nel corso che egli tenne al Collège de France nel 1978, il cui contenuto è edito in Italia con il titolo “La nascita della biopolitica”xii. L’argomentazione più forte di Foucault è che il ministro dell’economia Ludwig Erhard, all’indomani del fallimento totale dello stato tedesco in quanto stato, trovi come formula di sopravvivenza l’idea di un governo minimalista, che assicuri il libero svolgersi di puri meccanismi indipendenti di mercato, gettando le basi del neoliberismo. Siamo di fronte di nuovo ad un terzo elemento, fra uomo e realtà, che è chiamato ad armonizzare il conflitto fra questi due poli, elemento che – in quanto impersonale – diviene necessariamente totalitario.
Il potere assume l’aspetto di una grande strategia anonima, diceva Foucault. Ed in effetti lo abbiamo visto quando in nome del rigore economico si sono lasciati morire degli esseri umani, in Grecia, invocando l’”alternativlos”, l’assenza di alternative, lemma cui la Germania ci ha abituati e che getta le sue radici nel discorso di Erhard del 1948. Sono le ineluttabili leggi della storia dello stalinismo, la provvidenza di certi soprusi religiosi, la democrazia che si impone come bene da esportare a tutti i costi, lo “spazio vitale”, tutte formule in cui si condensa la proiezione esterna di un conflitto intollerabile, e che sempre sono foriere di totalitarismo. Del resto anche oggi, a chi ritiene che non sia lecito privare del diritto di lavorare in forza di una misura di efficacia non comprovata (e mi chiedo se una comprovata efficacia possa mai giustificare un sopruso simile) viene ribattuto con cieca ottusità “E tu che faresti?”
Desidero concludere le considerazioni sulla Dialettica dell’Illuminismo con una citazione che ritengo particolarmente efficace:
Nel progresso della società industriale, che pretende di avere esorcizzato la legge – da lei stessa prodotta – della pauperizzazione crescente, perisce l’idea stessa che giustificava il tutto: l’uomo come persona, come esponente della ragione. La dialettica dell’illuminismo si rovescia oggettivamente in follia.xiii
III– Considerazioni finali
Consapevole di essermi addentrato in un terreno scomodo, certo di aver detto qualche inesattezza, e di essermi invaghito di qualche argomentazione la cui forza stringente potrebbe essere puramente illusoria, ritengo tuttavia di aver condotto onestamente lo sforzo di pensare autonomamente una situazione non facile, in cui si vedono pullulare diffusamente i germi di una regressione violenta, intollerante, gravida di sofferenza.
Rispetto al tema lambito senza mai nominarlo, quello della pandemia e delle decisioni politiche che ne sono conseguite, rivendico con forza una posizione che, per quanto possa essere sbagliata, trovo abbia diritto di esistenza almeno in quanto ipotesi di lavoro (ogni riferimento al Περί ἑρμηνείας di Aristotele e al processo a Galilei è puramente intenzionale). Io credo che anche partendo dal presupposto che i vaccini garantiscano un’interruzione completa della catena del contagio, non abbiano alcun effetto collaterale e consentano l’eradicazione totale della malattia, ebbene le conseguenze politiche che abbiamo toccato con mano non conseguirebbero come implicazione razionale ed ineluttabile da tale presupposto.
Ritengo che dovremmo tutti soffermarci sul fatto che la reboante apertura degli hub vaccinali astrazeneca ai giovani ha provocato la morte di una diciottenne. Che in sostanziale conseguenza di quell’evento si è deciso di offrire i vaccini astrazeneca all’Africa, dopo aver bacchettato per un’intera estate i calciatori che non volevano inginocchiarsi per il Black Lives Matter.
Io credo di poter ancora rivendicare il diritto di pensare, e difendere fieramente l’istinto umano di voler provocare il pensiero nei propri simili e dibattere fuori da perimetri di indicibilità e impensabilità. Con rispetto e amore per il prossimo.
E se, a margine di tutto questo, qualcuno sentisse il bisogno di provocarmi dicendo “E allora tu che faresti?” mi auguro che non le mie parole, ma quelle dei filosofi che ho citato possano essere sufficienti a farlo sentire un po’ stupido.
Perché a tratti lo siamo tutti, è questo forse l’insegnamento ridotto a slogan della Dialettica dell’illuminismo. E se uso uno slogan dopo aver tanto argomentato contro tale formula comunicativa è perché, grazie a Dio, nessuno ha sempre ragione, neanche la ragione.
i E. Canetti, Massa e Potere, Adelphi, 1981 , Milano. Pg 51-52
ii M. Horkheimer/T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, 1966, Torino. Pg 14
iii M. Horkheimer/T.W. Adorno, op. cit., pg 16
iv M. Horkheimer/T.W. Adorno, op. cit. pg 34
v R. Musil, Sulle teorie di Mach, Adelphi, 1973, Milano. Pg 48
vi M.Horkheimer/T.W. Adorno, op. cit. pg 208-209
vii M.Horkheimer/T.W. Adorno, op. cit. pg 20
viii M.Horkheimer/T.W. Adorno, op. cit. pg 227
ix M.Horkheimer/T.W. Adorno, op. cit. pg 14
x Gaston Bachelard, L’eau et les rêves, citato in H. Marcuse, op. cit. pg 225
xi H.Marcuse, op. cit. pg 164
xii M. Foucault, La nascita della biopolitica, Feltrinelli, 2020, Cles (TN)
xiii M. Horkheimer/T.W. Adorno, op. cit. pg 219